Il dibattito storiografico sul tardoantico non ha consentito di definire sia le caratteristiche del periodo storico che la sua cronologia. Il mondo accademico, infatti, risulta essere diviso in due fazioni che continuano a dibattere sia sulla cronologia del periodo che sulla sua definizione.
In questo studio si é cercato di definire le caratteristiche del periodo e la sua cronologia partendo dal dibattito storiografico e approdando alla definizione di un'epoca nuova che prepara il mondo medievale.
Inhaltsverzeichnis
Introduzione
Dal “basso impero” al “tardoantico”
La storiografia sul “basso impero” dal ‘700 all’800
Dal ‘900 ai giorni nostri
Peter Brown e il rifiuto del declino: il concetto di trasformazione
La formazione
La società tardoantica tra continuità e trasformazione
L’emergere del cristianesimo
La fine dell’antichità
La ricezione di Brown e il dibattito storiografico sul tardoantico
La ricezione di Peter Brown
Il dibattito storiografico sul tardoantico: gli storici contrari alla visione di Brown
Il dibattito storiografico sul tardoantico: gli storici favorevoli alla nozione di Brown
Riflessione sul tardoantico
Bibliografia
Introduzione
Lo Studio che qui si presenta ha come oggetto di ricerca una riflessione sull’attuale dibattito storiografico sul tardoantico.
L’esigenza di soffermarsi su questo argomento nasce dalla necessità di comprendere meglio, attraverso l’analisi delle problematiche storiografiche che riguardano il periodo compreso tra l’avvento di Diocleziano e il VI secolo, l’inserimento del tardoantico all’interno dello sviluppo storico che si ha dall’età antica a quella medievale. Si evince, infatti, che la storiografia moderna è divisa in due grossi schieramenti che ha generato la formazione di due scuole di pensiero che esprimono due visioni diverse sull’età presa in considerazione: da una parte il tardoantico è visto come un’epoca di lenta transizione al medioevo; dall’altra il periodo è considerato come un momento di crisi e di declino.
La presenza di questa forte dicotomia rende necessaria l’analisi dei diversi dati che sono presi dalle due fazioni per sostenere il proprio assunto, poiché se non si sviscerano dapprima i diversi aspetti non si può raggiungere un’idea precisa sul periodo storico e, nello stesso tempo, risulta impossibile definire, cosa più importante, gli aspetti che contraddistinguono un’epoca.
Per raggiungere tale fine, quindi, si è utilizzato un criterio di organizzazione del lavoro che ha consentito una divisione in tre capitoli: il primo riguardante la storia degli studi; il secondo concernente l’analisi del pensiero di Peter Brown che, come si vedrà nel corso dello studio, ha influenzato molto il giudizio sul tardoantico; il terzo concentrato sul dibattito storiografico.
A seguito dei tre capitoli, inoltre, è presentata una riflessione in cui, attraverso l’analisi dei punti focali dell’attuale dibattito, si è cercato di proporre un’idea di tardoantico che comprenda gli aspetti più interessanti e, nello stesso tempo, più veritieri delle due fazioni. È ovvio che la selezione degli argomenti dei due schieramenti è avvenuto anche alla luce dei fatti storici susseguitesi nel periodo di tempo compreso dall’avvento di Diocleziano al VI secolo d.C.
Dal “basso impero” al “tardoantico”
La storiografia sul “basso impero” dal ‘700 all’800
Gli studi compiuti negli ultimi decenni hanno consentito di avere una visione meno drammatica del periodo che, compreso tra il IV e il VII secolo d.C., viene definito tardoantico[1].
Gli storici, infatti, che nei secoli scorsi si sono dedicati allo studio dell’antichità stabilivano che nella storia di Roma si dipanava un’epoca di crisi e di declino che aveva come conseguenza la caduta dell’impero[2]. Questi concetti sono espressi nelle opere di importanti autori del ‘700 come Voltaire, Montesquieu e Gibbon ed è proprio in questo secolo, non a caso, che viene coniato il termine, con valore del tutto dispregiativo, di “basso impero” che risulta essere usato dagli storici sino alla metà del secolo scorso[3].
Soprattutto in questo secolo, infatti, si viene a formare un giudizio di disprezzo verso il “basso impero” poiché era considerato come il periodo in cui si manifesta il declino della cultura, della politica e della società romana a dispetto di un’età dell’oro che veniva individuata, seguendo le preferenze di ciascun studioso, o nell’età repubblicana o nell’età augustea o nel secolo degli Antonini.
Emblematica, a tal proposito, è la figura di Voltaire che nell’ Essai esprime un’importante interpretazione della storia romana. Questi, infatti, individua l’epoca d’oro nell’età augustea e afferma che la diffusione del cristianesimo costituisce il punto di inizio di una trasformazione politica, sociale, religiosa e culturale dell’impero che ne causa la caduta[4].
Non appare diverso il principio su cui si basa Montesquieu anche se, a differenza di Voltaire, analizza le forze interne che causano la distruzione dell’impero. Nelle Considerations, infatti, l’autore rivela i buoni principi su cui si regge Roma che sono attive soprattutto in età repubblicana quando il territorio conquistato dall’Urbe ancora non era eccessivo. L’autore afferma che l’espansione è causa della corruzione e della mutazione dei costumi, e che l’arrivo degli imperatori non ferma il declino ma lo accentua fino a quando le riforme di Diocleziano e Costantino portano al crollo di Roma[5].
Più completa e maggiormente negativa appare la visione del “basso impero” in Gibbon che, come ha sottolineato il Momigliano[6], si immette nel solco già tracciato da Montesquieu: l’ossatura appare la stessa anche se il giudizio negativo sul cristianesimo lo pone in rapporto con Voltaire[7]. Secondo lo studioso il “basso impero” si caratterizzava per la presenza di un potere arbitrario, dispotico che negava il potere legale manifestatosi nella repubblica[8].
Nell’800 il giudizio sul “basso impero” sostanzialmente non muta e non poteva essere diversamente visto il contesto culturale in cui si inserisce la discussione. Siamo, infatti, nel secolo in cui si scopre la poesia primitiva e geniale che viene individuata nella ossianica-germanica, nella biblica-cristiana e nella omerica-ellenica[9].
Appare evidente che nella rivalutazione della cultura ellenica e nazionale, esplicitata soprattutto nelle tradizioni germaniche, non può esserci posto per una valutazione della storia dell’impero romano. In modo particolare l’idea di nazione, che domina gli studiosi dell’800, è causa di un giudizio negativo sulla storia di Roma[10]. Emblematici, a tal proposito, sono le affermazioni di Herder e Niebuhr. Per il primo Roma rappresenta l’arrivo della distruzione, di colei che divora le nazioni e in questo senso non vi poteva essere giudizio più negativo[11]. Il secondo, al contrario, rivaluta il periodo iniziale di Roma ma considera negativamente l’età imperiale[12].
In questo contesto, quindi, la storia dell’impero non costituiva interesse per gli storici: al limite ci si soffermava sull’età repubblicana. Basti pensare che lo stesso Mommsen considera Cesare il più grande genio della storia di Roma e giudica il basso impero come un’epoca nella quale si passa da « un’età di vecchiezza » ad una di « putredine »[13].
È da sottolineare, però, che, nonostante l’imperante giudizio negativo che si esprime sul “basso impero” nel corso dell’800, nella seconda metà del secolo si ampliano le conoscenze su questa epoca, frutto anche dell’allargamento della documentazione riguardante gli ultimi secoli di vita dell’impero romano. Basti considerare che alla fine del secolo vedono la luce le opere del Seeck[14] e del Bury[15] studiosi che si pongono l’obiettivo di trattare la storia del “basso impero” criticamente.
Proprio in questo periodo, inoltre, si dà un grosso impulso alla scoperta della religiosità del “basso impero” che si accompagna a quello della riflessione sugli aspetti economico-sociali. Nel 1852, infatti, il Burckhardt offre al pubblico un’opera importante, L’età di Costantino, dove analizza la cultura e la religione nell’età compresa da Diocleziano a Costantino. I giudizi dello studioso su questo periodo non sono, sostanzialmente, diversi da quelli di Gibbon tanto è vero che giudica il “basso impero” come l’età in cui si manifesta « la senilità e il declino del mondo antico »[16]. L’autore, inoltre, afferma che la decadenza è da individuare in tutti gli aspetti dell’epoca: nell’arte, nella società, nella letteratura ecc.
Per quel che concerne i problemi sociali è da dire che proprio in questo periodo si affermano gli studi sulla schiavitù, sulla tecnologia, sulla malaria, sulla storia agraria, sul colonato, sulla popolazione ecc. Basti pensare che lo stesso Mommsen è attratto, negli ultimi periodi, dalla storia della moneta e dalla « ricostruzione sociologica »[17].
Questi studi consentono di individuare nuovi fattori che portano alla caduta dell’impero romano come quelli economici e sociali ma, nonostante le conquiste che permettono di conoscere meglio la storia del “basso impero”, non si giunge ad una rivalutazione del periodo: la concentrazione sui fattori sociali ne accentua la negatività poiché ci si sofferma sulla cause interne che portano alla caduta dell’impero come si può leggere sia nelle pagine di Burckardt che di Seeck[18]. Il declino, infatti, non viene determinato da fattori esterni che causano la degenerazione dei costumi, come può essere il cristianesimo (Voltaire) o l’arrivo dei barbari (Gibbon), ma è intrinseco nel declino dell’intera società.
Si sottolinea, tuttavia, che tra la fine dell’800 e gli inizi del ‘900 si aprono nuove prospettive per il “basso impero” almeno per quel che concerne la storia dell’arte. Proprio in questo periodo, infatti, appare un’opera fondamentale per la rivalutazione dell’arte del “basso impero”, la Spätrömische Kunstindustrie di Riegl.
In questa importantissima opera l’autore, opponendosi al classicismo di Winckelmann e basandosi sul concetto di evoluzione, da origine al concetto di arte tardoantica che viene vista come una corrente che esprime un nuovo gusto estetico da collegare allo spirito del tempo[19]. In questo modo l’arte del “basso impero” non viene più considerata come un momento di degenerazione e di decadenza di quella classica ma va interpretata nella sua essenza, nella sua armonia, nella sua originalità, discorso che dal punto di vista storico sarà accettato soltanto a partire dal secondo dopoguerra.
Dal ‘900 ai giorni nostri
Nel corso del secolo scorso l’approfondimento degli studi sul “basso impero” ha consentito, come già sottolineato, la nascita di una profonda revisione del periodo compreso dall’avvento di Diocleziano alla caduta dell’impero romano d’Occidente[20]. Se nell’800, infatti, ancora si considerava questa epoca come un’età di decadenza e di crisi che aveva come risultato finale la disfatta, la distruzione di Roma e dell’Occidente antico, nel secolo scorso lo sguardo con cui viene considerato il periodo muta. Basti pensare che ancora alla fine dell’800, come già evidenziato, il “basso impero” viene visto come un’età di decadenza. Emblematiche, a tal proposito, sono i giudizi di Mommsen su Diocleziano: « l’epoca di Diocleziano reca il marchio della decadenza e non suscita la nostra simpatia »[21].
È da sottolineare, comunque, che il mutamento di prospettiva sul “basso impero” non è repentino ma graduale. Ancora Rostovzev, infatti, giudicava il periodo come un’età tetra, decadente in cui era evidente il germe della crisi che non consente lo sviluppo del mondo antico ma la sua caduta[22].
Sempre nello stesso periodo, però, nascono le prime critiche alle visioni catastrofiche che si esplicitano nell’opera di Bury, che vide nel basso impero il graduale collasso del potere romano[23], e in quella di Stein nella quale non risulta essere affrontato il problema della decadenza[24]. Sempre nella prima metà del ‘900, inoltre, appaiono le critiche al quadro di crisi, evidente segno di un cambiamento di prospettiva nella considerazione del “basso impero”, delineato da Rostovzev[25].
In questo periodo, quindi, gli studiosi iniziano a proporre una revisione del concetto di decadenza associato al “basso impero” e questa epoca inizia ad essere considerata, anche se ancora timidamente, nella propria autonomia e originalità[26].
I numerosi studi, infatti, compiuti dal Piganiol e dal Jones hanno permesso di individuare nel “basso impero” una vitalità e una originalità che mal si sposavano con l’idea di decadenza prospettata nei secoli precedenti. Questa revisione, questo cambio di prospettiva era dovuto certamente all’approfondimento degli studi sia sugli imperatori che nella mentalità dell’epoca. Esemplari, a tal proposito, sono gli studi di Cerfaux – Tondriau[27] sul culto imperiale o gli studi che evidenziano la presenza di una costituzionalità legittima nel “basso impero”[28].
L’analisi, quindi, della mentalità, della società e dei meccanismi caratteristici dell’epoca hanno consentito di rivedere il giudizio di decadenza e di crisi così come l’approfondimento degli studi sull’economia e sulla storia delle province[29].
Esemplare, a tal proposito, è l’opera di André Piganiol dove viene presentato un impero vitale, non decadente che viene ucciso nella cultura dall’arrivo dei barbari[30]. Anche Jones si pone nella stessa scia affermando, dopo aver messo a confronto la parte occidentale con quella orientale dell’impero e dopo aver analizzato tutti i problemi politici ed economici connessi al “basso impero”, che l’Occidente subì maggiori pressioni dalle forze esterne[31].
La revisione critica sul “basso impero” che si esplicita nel ‘900, quindi, rivela in questo periodo non una crisi, un declino che porta alla caduta della compagine imperiale: si riconosce che l’impero d’Occidente non cadde per cause interne ma per problemi esterni.
Più equilibrata appare Mazzarino che, nella Fine del mondo antico, riconosce la vitalità dell’epoca ma non trascura i problemi sociali connessi al “basso impero”:
« Innovazioni tecniche, od applicazioni di scoperte vecchie di secoli, ma sin allora quasi trascurate, danno la certezza che non si trattava di un mondo assopito. Ma ciò non basta a dissipare le ombre sulla struttura sociale dell’impero in quest’ epoca tarda. Gli uomini si sentivano oppressi dalla burocrazia. I contadini non amavano il loro stato. Per sfuggire ai tributi, si rifugiavano sotto il patrocinio dei potenti. L’invasione dei barbari è dunque inseparabile dalle difficoltà all’interno. Sono un fenomeno solo, a due volti. La critica dell’idea di decadenza può essere dunque integrata con un <<distinguo>>. Diremmo che non c’è decadenza là dove lo spirito dell’uomo tardoromano si muove più liberamente, nel campo della poesia o nell’arte o nella religiosità, od anche, se volete, nell’intimo recesso del suo focolare e dei suoi affetti; ma una crisi c’è, in ciò che riguarda lo stato, la res publica exinanita, come la chiamavano gli uomini dei circoli di Giuliano. […] Ma c’è una crisi politica e sociale, anche se non c’è una generale decadenza »[32].
L’autore riconosce, quindi, una crisi sociale e politica anche se da questa non fa derivare una più generalizzata decadenza. Nello stesso tempo rivela che « la dissoluzione politica dell’impero romano, cominciata alla fine del quarto e divenuta già manifesta nel quinto secolo, si concluse nel settimo ad opera degli Arabi »[33].
La continuità che lo storico individua sino all’arrivo degli Arabi, come già esplicitato in Dopsch[34] e Pirenne[35], è una tendenza tipica del ‘900 che trova il suo apogeo nella rivalutazione dei regni romano-barbarici che iniziano a non essere considerati più come la causa della morte, dell’assassinio dell’antichità, così come sono presentati da Piganiol, ma come coloro che consentono il graduale passaggio dal mondo antico a quello alto medievale. Non è un caso, infatti, che proprio in questo periodo iniziano ad essere individuati segni di continuità tra l’antichità e il medioevo[36].
La prospettiva della continuità e l’ingente lavoro che è stato incentrato su questa a partire dagli anni ’70, inoltre, ha portato a considerare come un non evento la caduta di Roma nel 476 d.C. e a generare una notevole espansione cronologica del periodo che oggi viene definito tardoantico. Negli ultimi trenta anni, infatti, gli studi eseguiti sul periodo danno origine ad una importante revisione che non riguarda soltanto il riconoscimento dell’originalità di questo periodo e della sua vitalità, aspetto che, d'altronde, fu già oggetto di studio nel corso del secolo scorso e che ha consentito di uscire da una nozione dispregiativa del periodo, ma anche una nuova periodizzazione, certamente più allargata sia a monte che a valle, che ha dato origine ad un imponente dibattito ancora in corso.
In modo particolare le ricerche di Peter Brown, su cui si ritornerà più diffusamente in seguito, hanno dato origine ad una cospicua revisione della cronologia del tardoantico. Se, infatti, alla fine degli anni ’50 Momigliano poteva annunciare trionfalisticamente che « in quest’anno di grazia 1959 è ancora possibile considerare verità storica il fatto che l’Impero romano declinò e cadde »[37] , ciò non è possibile farlo oggi con la stessa disinvoltura a causa della cospicua revisione dovuta al Brown[38]. Questi ha evidenziato in molti suoi studi la mancanza di una rottura tra il mondo antico e quello tardoantico ma anche tra questo ultimo e quello dei regni romano-barbarici.
In una delle sue opere, infatti, lo studioso prende le distanze dal modo di pensare tradizionale rifiutando l’idea di declino per il mondo tardoantico e individuando in questo, pur nell’originalità e nella autonomia del periodo, la medesima struttura delle epoche precedenti[39]. Nella religiosità del mondo tardoantico lo studioso non vede una rottura con il mondo antico ma una continuità[40], una trasformazione che consente il passaggio da « un’età di equilibrio a un’età di ambizione »[41]. Afferma, inoltre, che i sistemi, vale a dire la koiné culturale, rimangono gli stessi ma mutano i meccanismi per la presenza, a partire dal IV secolo, di un governo duro. Da questi concetti consegue che « la città tardo antica non era dunque né impoverita né caratterizzata da un’assenza di cerimonie. Semplicemente ricchezza e riti non si esplicitavano più nei modi dell’età precedente, e cioè in edifici pubblici e in culti pubblici. Era il panorama urbano a mostrarlo. Lo splendore di una città della tarda antichità va osservato nei suoi palazzi privati, che dominavano la città. »[42].
Questi concetti, espressi con tanta enfasi, non potevano non causare una revisione, come già accennato, sulla tarda antichità e sul valore da attribuire alla caduta di Roma[43].
La revisione, infine, è riflessa sulla periodizzazione che risulta essere notevolmente ampliata da Brown sia a monte che a valle[44].
La revisione del tardoantico, proposta da Brown, ha influenzato molti studiosi a lui contemporanei provocando un nuova veduta del periodo. Molti storici, infatti, come Ward-Perkins[45], Cameron[46] e Bowersock[47], influenzati dalla revisione, hanno finito per generare, come è sottolineato da Schiavone[48] e Giardina che si oppongono a tale concetto, la nozione di un tardoantico come età di graduale transizione verso l’alto medioevo.
Il revisionismo di Brown, però, se ebbe immediatamente seguito nella storiografia anglosassone non ebbe lo stesso successo in Italia, anche se alcuni studiosi nostrani risultano essere più vicini alle nuove tendenze[49]. Emblematico, a tal proposito, è il saggio polemico di Giardina, Esplosione di tardoantico[50], in cui si invita a rivalutare l’idea di decadenza e di intraprendere una profonda riflessione che consenta di « individuare i caratteri specifici di una società tardoantica in quanto distinta in modo autonomo da quella antica e da quella medievale; fare discendere da questa analisi morfologica una periodizzazione che sia armonica con essa »[51].
Il dibattito storiografico, quindi, che si è aperto in Italia e su cui si ritornerà più dettagliatamente in seguito, schiude nuove problematiche sull’epoca e invita anche a soffermarsi sulla possibilità di « una pausa, di un momento di riflessione critica e autocritica sia sulle prospettive future, sia sul cammino compiuto. »[52].
Questo invito, o meglio, la critica al revisionismo di Brown inizia, oggi giorno, a colpire anche la storiografia anglosassone come è dimostrato in un recente studio di Ward – Perkins dove, già nel titolo, immette il termine declino: non più la continuità e la trasformazione come elementi tipici del tardoantico ma il declino, la decadenza[53].
Gli attuali apporti, quindi, della storiografia anglosassone si dirigono verso una revisione dei concetti espressi da Brown negli ultimi trent’anni[54].
Peter Brown e il rifiuto del declino: il concetto di trasformazione
La formazione
La figura di Brown è certamente una delle più importanti per lo studio del tardoantico. Come si è visto in precedenza, infatti, egli è autore di una vera “rivoluzione copernicana” per quel che concerne il concetto, o meglio, la visione di questo periodo. Non è un caso che proprio i suoi studi abbiano dato origine ad una forte rivalutazione dell’epoca e, nello stesso tempo, hanno aperto le porte all’acceso dibattito che sarà analizzato nelle pagine successive[55].
Proprio perché è l’autore di una forte revisione sul tardoantico è bene comprenderne la sua formazione, vale a dire, il sostrato culturale che lo ha portato a compiere la così detta “rivoluzione copernicana”.
Brown è uno storico del Medioevo che si è formato a Oxford e che risente molto, come egli stesso dichiara, dei forti impulsi culturali di quell’ambiente. In modo particolare risente dell’astro di due studiosi: Momigliano e Douglas[56]. Con il primo, conosciuto dapprima come supervisore della sua tesi in Storia Medievale, ebbe un proficuo dialogo per più di 30 anni[57]. Il secondo fu conosciuto indirettamente ma i suoi studi circolavano copiosamente nell’ambiente accademico britannico[58].
Momigliano lo influenza fortemente tanto che il modo di giudicare la trasformazione tardoantica in Brown appare quasi come una diretta derivazione, anche se gli esiti sotto molti aspetti sono diversi, del pensiero del maestro. Entrambi, infatti, considerano la religione come un elemento culturale di grande portata che gioca un ruolo di fondamentale importanza nei cambiamenti culturali che avvengono a partire dal III secolo d.C.[59]. È da sottolineare, inoltre, che l’influenza di Momigliano non si ferma alla sola visione del tardoantico ma mostra l’influsso anche sullo stesso modo di fare la storia di Brown soprattutto per quel che concerne l’importanza attribuita alla religiosità nell’indagine storica che portò entrambi gli studiosi a frequentare attivamente l’antropologia sociale[60].
Non meno influente appare l’ambiente britannico che, come lo stesso Brown riconosce, esercita un forte impulso sul suo modo di fare storia in modo particolare per quel che concerne il contributo, ancora una volta, degli studi antropologici. Lo stesso autore, appunto, riconosce che durante il suo percorso si volge verso un nuovo approdo che gli consente di distaccarsi dal concetto di decadenza connesso al tardoantico e di comprendere meglio, nello stesso tempo, le caratteristiche dell’epoca[61]. Nell’introduzione all’opera “Genesi della tardo antichità”, infatti, lo studioso dichiara:
[...]
[1] L’arco cronologico considerato si riferisce alla periodizzazione canonica del tardoantico. Nel corso dello studio qui effettuato, infatti, si cercherà di specificare meglio la datazione riferendosi, naturalmente, anche alle tendenze attuali.
[2] Anche se in questa sede si parte dal ‘700 è necessario rilevare che già nell’umanesimo si consideravano gli ultimi periodi della storia di Roma come un’epoca di declino. Basti considerare, a tal proposito, le analisi di Bruni, che parlava di vacillatio, e di Biondo, che utilizzava il termine inclinatio. Sull’argomento si vedano gli studi approfonditi di Mazzarino 1959, pp. 77 sgg.; D’Elia 1967, pp. 17 sgg.
[3] Il termine “basso impero” è coniato in Francia nella seconda metà del ‘700 ad opera di Lebeau. Questi diede alla luce una storia in diversi volumi: Histoire du Bas-Empire commençant à Constantin le Grand. Sull’argomento si vedano gli studi di Carrié 1999, pag. 11; De Giovanni 2007, pag. 3. Ancora negli anni ’50 dello scorso secolo vi sono storici come Mazzarino che utilizzano il termine “basso impero”.
[4] È ovvio che bisogna contestualizzare il pensiero dell’autore nel suo tempo. Questa analisi è compiuta magistralmente dal D’Elia e non sembra opportuno ripeterla in questo studio. È interessante, tuttavia, ripetere un’importante espressione di Voltaire che sintetizza il suo pensiero sulle cause della caduta dell’impero romano: « Il Cristianesimo apriva il cielo, ma rovinava l’Impero ». Sull’argomento si veda D’Elia 1967, pp. 209 sgg.
[5] D’Elia 1967, pp. 213 sgg.
[6] Momigliano 1955, pag. 139.
[7] È da specificare, comunque, che anche se si individua un rapporto con Voltaire questo va mitigato poiché in Gibbon si apre anche un giudizio positivo sul cristianesimo. Sull’argomento si veda Momigliano 1978, pp. 11 sgg.
[8] Il giudizio negativo di Gibbon è simile a quello di Montesquieu anche se lo storico inglese vede il massimo apogeo, ovvero, una nuova rinascita del potere legale nell’età degli Antonini. Da qui parte il declino che ha come conclusione la caduta dell’impero. Gibbon 1986, pp. 25 sgg.
[9] D’Elia 1967, pag. 224.
[10] Sull’argomento si veda lo studio esaustivo di Momigliano 1955, pag. 144 e di D’Elia 1967, pp. 227 sgg.
[11] Secondo Herder Roma si salva solo perché rappresenta un « ponte gettato dalla provvidenza sull’abisso dei secoli per portare fino a noi qualche briciola dell’antichità ». D’Elia 1967, pag. 256.
[12] Secondo l’autore la storia imperiale rappresenta « la storia di una grande massa corrotta, dove la violenza sola decide […] una indefinita malattia distruttrice , che inevitabilmente doveva portare la fine. ». D’Elia 1967, pag. 257.
[13] Il giudizio generalmente negativo dell’età imperiale deriva anche dall’ideologia politica liberale e dall’idea di democrazia che si esplicita soprattutto nel corso dell’800. D’Elia 1967, p. 258. Su Mommsen si veda Baldini 2008, pp. 91 sgg.
[14] Seeck 1897 – 1921.
[15] Bury 1889.
[16] Baldini 2008, pag. 86
[17] D’Elia 1967, pp. 302 sgg..
[18] È interessante notare che l’autore, anche se si pone il fine di offrire un’opera critica sulla caduta del mondo antico, non si discosta dai concetti imperanti nel corso della seconda metà dell’800. Il passaggio dall’età romantica all’età del positivismo consente, certamente, di dare un forte impulso allo studio della storia antica e, in modo particolare, del “basso impero”. Si prendono in considerazione, infatti, anche alcuni aspetti della società che sino a questo periodo non erano stati apprezzati come l’economia, la società ecc. E si utilizza nelle ricostruzione storica un metodo, tipico per i tempi, maggiormente scientifico e critico anche se si dà origine a teorie aberranti, impregnate di razzismo per quel che concerne le cause del declino e della caduta dell’impero romano che si evidenziano soprattutto in Seeck. Per questi, infatti, la causa della caduta dell’impero non è da ravvisare nell’arrivo dei barbari ma nella eliminazione dei migliori da parte dei provinciali e degli schiavi che sostituendo gli spiriti illustri, “illuminati”, del tempo non riuscirono a reggere la società. Sull’argomento si veda anche Baldini 2008, pag. 88.
[19] D’Elia 1967, 332 sgg.
[20] Molti sono gli studi che si susseguono nel corso del ‘900 che modificano, soprattutto a partire dalla seconda metà del secolo, la visione del “basso impero”. Proprio in questo secolo, comunque, vi sono numerosi studi sul tardo impero che inizia ad essere considerato nella sua originalità ed autonomia. Si sottolineano gli studi del Piganiol del 1947 e di Rostovzev del 1926.
[21] De Giovanni 2007, pag. 2
[22] Per l’esule russo l’impero romano ha il suo massimo apogeo, come in Gibbon, nell’età degli Antonini. Successivamente la fine dell’evergetismo delle borghesie municipali e la conseguente lotta che si instaurò tra i soldati e i cittadini ne provocò il declino e la morte. Sull’argomento si veda Rostovzev 1953, pag. 619
[23] Si tratta dell’edizione del 1923 della History of the later Roman Empire che già fu pubblicata nel 1889 ma rivista nel secolo scorso. Proprio in questa opera afferma che il collasso dell’impero romano fu graduale e fu dovuto ad una serie di contingenze.
[24] D’Elia 1967, pag. 342.
[25] Ci si riferisce alle critiche all’opera di Rostovzev fatte da Stade, Gelzer e Heichelheim. Sull’argomento si veda D’Elia 1967, pag. 342.
[26] È ovvio che in questo periodo ancora non si giunge alle forti revisioni che hanno inizio a partire dagli studi del Brown.
[27] Cerfaux – Tondriau 1957, pp. 313 sgg.
[28] È naturale che l’approfondimento degli studi sull’epoca consente di conquistare nuove prospettive e visioni sul “basso impero”. In modo particolare la presenza di una ricerca interdisciplinare ha consentito di comprendere più a fondo le caratteristiche sociali, giuridiche e religiose del periodo. Sull’argomento si veda De Giovanni 2007, pp. 1 – 38.
[29] Sull’argomento si veda l’ottimo studio, ricco di suggerimenti bibliografici e commenti di D’Elia 1967, pp. 339 – 397.
[30] Piganiol 1947.
[31] Jones 1964.
[32] Mazzarino 1959, pp. 190 – 191.
[33] Mazzarino 1959, pag. 193.
[34] Dopsch afferma che l’arrivo dei barbari non costituisce una discontinuità nel mondo antico, poiché questi erano già civilizzati a causa dell’influsso romano che avevano già subito da molti secoli. Molto importante, inoltre, risulta essere la teoria sulle città. Questi, infatti, afferma che le città mantennero, nei regni romano-barbarici, la funzione che avevano già in età romana vale a dire che continuarono ad essere sedi di mercato e di attività amministrativa. Sull’argomento si veda Dopsch 1923. Sulle critiche si vedano gli studi di Otto 1925, pp. 365 sgg.; Cognasso 1927, pp. 367 sgg.
[35] Molto interessante risulta essere la teoria dello storico belga Pirenne. Secondo lo storico, infatti, le invasioni barbariche non provocarono la fine del mondo antico ma questo continuò a vivere floridamente sino all’arrivo degli Arabi. Il solo evento catastrofico che spezzò, quindi, l’unità tra Oriente e Occidente si deve a questi ultimi non ai barbari che continuarono a mantenere le strutture che già vivevano in precedenza. Pirenne 1937. È da sottolineare, comunque, che la teoria dello storico ha avuto grande eco tra gli studiosi e che oggi tale assunto risulta essere superato come dimostra il saggio di Petralìa 1995, pp. 38 sgg.
[36] Sull’argomento si vedano gli studi di Falco 1951, pp. 265 sgg.; Sestan 1952, pp. 195 sgg.
[37] Momigliano 1968, p. 5.
[38] Gli studi del Brown si soffermano sull’analisi dei caratteri socio-culturali del tardoantico. Lo studioso, infatti, si sofferma sulle modifiche sociali e religiose che si hanno nel corso della tarda antichità. Lo stesso studioso, comunque, afferma che l’esigenza dello studio è dovuto alla « crescente insoddisfazione nei confronti di ciò che definirei oggi come una «retorica del cambiamento» tipica del racconto storico. Questa «retorica del cambiamento» si accontentava di ridurre i tratti più sorprendenti della civiltà della tarda antichità emersi nel periodo successivo a Marco Aurelio a semplici sintomi di un presunto fenomeno di declino e crollo del mondo classico greco-romano ». Brown 2001, pag. IX.
[39] Lo studioso inglese afferma che « gli studi e le ricerche attuali consentono di farci una idea diversa da quella offertaci in "Decadenza e Caduta" di Gibbon, in "Fin du monde antique" di Ferdinand Lot e nella visione grandiosamente personale e inquietante della «decadenza della civiltà antica» della "Storia economica e sociale dell’Impero Romano" di Mikhajl Rostovcev ». Brown 2001, pag. XI
[40] Parlando di Aristide lo studioso afferma che « la situazione è la stessa per ciò che concerne il suo stile di vita. Se avessimo incontrato Aristide nel 171, lo avremmo trovato che non si lavava da cinque anni, proprio come tutti gli eremiti cristiani vissuti in seguito: era ossessionato dall’idea di non doversi bagnare. Un’immagine del corpo che apparteneva alla koiné mediterranea di quel periodo considerava il fatto di evitare il contatto con l’acqua un modo di rendere il corpo «asciutto», sodo e leggero, dunque il veicolo adatto di un’anima liberata dai suoi elementi «terreni» e pesanti. » Brown 2001, pag. 59
[41] Brown 2001, pag. 46.
[42] Brown 2001, pag. 64
[43] Si sottolinea che già nella storiografia italiana la caduta di Roma iniziò ad essere considerata come un non evento. Esemplari, a tal proposito, risultano essere gli studi di Momigliano 1980, pp. 159 sgg.;
[44] Bowersock – Brown – Grabar 1999, pag. IX
[45] Ward – Perkins è un importante studioso che ha effettuato numerosi studi sull’edilizia del tardoantico. Negli studi iniziali riconosce la continuità tra il tardoantico e l’alto medioevo e individua l’assenza di una cesura anche nelle tecniche costruttive e nelle stesse forme.
[46] Averil Cameron è una importante studiosa inglese che in una delle sue opere prende le distanze da quelle che definisce visioni tradizionali sul tardoantico. In un suo studio afferma che « il 476 d.C. risulta essere, più che altro, una data comoda per gli storici dato che, come si è già osservato, la debolezza degli imperatori del quinto secolo si era manifestata ben prima: in molti casi essi non furono che degli strumenti nelle mani dei generali che ricoprivano la potente carica di magister militum. […] Perfino dopo che questi regni si furono costituiti continuò ad esistere un tale numero di tradizioni ed istituzioni romane che talvolta li si definisce società «subromane». » Cameron 1995, pag. 235.
[47] Glen Bowersock parla di tenue paradigma della caduta di Roma. Bowersock 1996, pp. 29 sgg.
[48] Schiavone si pone in netto contrasto con il concetto di una progressiva trasformazione, mutazione del mondo antico in quello alto medievale. Dimostra, al contrario, come l’impero sia in affanno già a partire dal III secolo e considera il tardoantico come un periodo che si colloca fra il III e il V secolo d.C., riconoscendone l’autonomia soltanto perchè rappresenta una fase accelerata di crisi. Schiavone 1998, pp. 43 sgg.
[49] Cracco Ruggini 1993, pp. XXXIII sgg.
[50] Giardina 1999, pp. 157 sgg.
[51] Giardina 1999, pag. 179.
[52] Vera 2002, pag. 349.
[53] Il recente studio di Ward – Perkins non è il solo che cerca di revisionare l’idea di Brown. Si ricordino, infatti, gli studi di Liebeschuetz 2001, pp. 1 sgg.; Ermatinger 2004; Heather 2008; Waard – Perkins 2008.
[54] Sulla revisione storiografica in atto nella tradizione anglosassone si veda il contributo di Marcone 2007, pp. 265 sgg.
[55] Il dibattito, come è stato evidenziato nel precedente capitolo, riguarda in modo particolare la storiografia italiana anche se in questi ultimi anni anche la scuola inglese sembra essere interessata ad una revisione degli studi del Brown. Sull’argomento si veda Marcone 2007, op. cit.
[56] Il legame con Momigliano è dichiarato dall’autore nella lectio doctoralis tenuta a Pisa in occasione del conferimento della Laurea ad Honorem conferitagli dall’ateneo pisano. Il tributo alla Douglas è dichiarato dal Brown nell’introduzione all’opera Genesi della tarda antichità. Sull’argomento si veda Brown 2001, pag. XVIII. Oltre all’influenza dei due studiosi accennati non bisogna dimenticare anche l’influsso che esercitano su Brown i saggi antropologici di E. E. Evans-Pritchard e le riflessioni di ordine psicoanalitico di Melanine Klein. Sull’argomento si veda Brown 1988, pag. 13.
[57] Sull’argomento si veda Cracco Ruggini 1988, pag. 741.
[58] Sull’argomento si veda Cracco Ruggini 1988, pag. 742.
[59] Lo stesso Brown afferma in un suo saggio che la riflessione sulla religione costituisce « il miglior balcone da cui contemplare lo scosceso precipizio che ci separa dal nostro antico passato ». Sull’argomento si veda Brown 1974, pp. 156 sgg.
[60] Sull’argomento si veda Cracco Ruggini 1988, pag. 742. In questo importante saggio la studiosa sottolinea che per entrambi, Brown e Momigliano, il cristianesimo è un fattore importante della trasformazione che avviene nel tardoantico.
[61] Non bisogna dimenticare che l’allontanamento dal concetto di crisi e declino connesso alla tardo antichità consente anche di vedere in questa epoca un periodo originale, vivace, autonomo nel quale sono individuati nuovi fattori che portano al distacco dell’età dal periodo antico e da quello medievale. Questo discorso, tuttavia, non costituisce una novità per la storiografia della seconda metà del secolo scorso come si è sottolineato nel precedente capitolo.